FIGLIO DI GIULIO RAPETTI MOGOL, PAROLIERE, FRA GLI ALTRI, DI MINA E BATTISTI, ALFREDO RAPETTI MOGOL HA SEGUITO LE ORME DEL PADRE NELLA MUSICA, MA È ANCHE NOTO COME PITTORE. IN QUESTA INTERVISTA RIPERCORRE LA SUA DUPLICE CARRIERA.
L’aspetto sia letterario sia figurativo appartengono alla sua famiglia da generazioni e in lui convive una sorta di sintesi. Alfredo Rapetti Mogol (Milano, 1961), paroliere e pittore, e figlio del Maestro Giulio Rapetti Mogol, autore per eccellenza di numerosi brani, su tutti per Mina e Lucio Battisti, in questa lunga intervista si racconta appieno, a partire dai suoi esordi nel mondo dell’arte, nel senso più ampio e completo. Da quando del peso della ‘parola’ ha fatto una cifra artistica, una ragione d’essere, quindi un simbolo imprescindibile per esprimere senza filtri emozioni e storie da condividere attraverso una precisa frase di una canzone, o le sfumature celesti di un dipinto.
Cheope è lo pseudonimo con cui firma le canzoni, tra gli altri per Raf, Fiorella Mannoia, Carlos Santana, Eros Ramazzotti, Marco Mengoni, Alessandra Amoroso, Fedez, Boomdabash, Mina, Celentano, Loredana Bertè, Gilberto Gil e Laura Pausini, che tra l’altro è in nomination ai Golden Globe e nella shortlist degli Oscar 2021 per il brano Io sì (Seen) scritto da Diane Warren, Niccolò Agliardi e dalla stessa Pausini, come colonna sonora del film di Edoardo Ponti La vita davanti a sé/The life ahead con Sophia Loren.
Mogol delinea quella maturità artistica raggiunta nel tempo, collaborazione dopo collaborazione, con dedizione, intuizione e l’umiltà di chi crede fermamente nella semplicità e nella trasparenza delle piccole cose utili per raggiungere quelle più importanti. Oltre alla musica, a completare la sua figura di artista c’è la pittura: dopo due partecipazioni alla Biennale di Venezia e a numerose collettive e personali non solo in Italia, Mogol racconta di un prossimo progetto che vede coinvolto un altro Maestro dell’arte, Michelangelo Pistoletto.
INTERVISTA AD ALFREDO RAPETTI MOGOL
Quando e come ti sei avvicinato alla musica e alla pittura?
La mia famiglia si è sempre occupata di musica. Mio nonno Mariano era autore di canzoni (con lo pseudonimo Calibi, N.d.R.) come Vecchio Scarpone ed editore della casa editrice musicale Ricordi e poi mio padre ha iniziato a scrivere da giovanissimo. Invece Alfredo, mio nonno materno che aveva creato negli Anni Venti una piccola azienda legata alla stampa, si dedicava anche alla pittura come mio zio, anche se non era la sua attività principale, e poi mia madre da giovane realizzava modelli di moda. Dopo l’iscrizione alla SIAE, dal 1983 ho iniziato a pubblicare canzoni, ma ci sono voluti dieci anni per il primo successo con Battito Animale di Raf per il disco Cannibali. È stato un percorso lungo e complesso perché frequentavo l’università e lavoravo come editore musicale come hanno fatto all’inizio mio nonno e mio padre, perché non riuscivo a mantenermi solo con i diritti d’autore. Nel 1993 ho lavorato con Raf e poi con Laura Pausini che, innamorata di quel disco, mi propose di collaborare: ho scritto per lei oltre 60 canzoni! Tra un paio di anni sarà il trentennale della mia attività professionale e più vado avanti più lavoro con i giovani, e questo mi ha permesso di sperimentare e collaborare tra gli altri con la compositrice Federica Abbate, un vero talento della musica, e con i produttori Takagi & Ketra.
E la pittura?
Intorno al 1996 mi ero affermato nella musica, ma sentivo che quello che facevo non mi rappresentava totalmente, e, anche se in realtà non avevo mai smesso, iniziai a sentire di nuovo l’esigenza di dipingere. L’occasione è stata la morte della mia ultima nonna: mio zio mi chiese se poteva interessarmi un suo vecchio armadio e così iniziai a dipingere i ripiani di nero e a scrivere qualcosa che non aveva un senso letterale: era più un segno che potesse rappresentare la memoria, perché senza la scrittura non saremmo nulla, non sapremmo neanche da dove veniamo, non avremmo testimonianze del passato. Tutte le cose importanti della vita sono scritte: da un matrimonio a un testamento a una lettera d’amore. E quindi in quel momento mi sono riconosciuto, e, parallelamente alla mia carriera di autore e insegnante (ho lavorato in varie università e accademie), mi sono ritrovato. Poi Mario Arlati, nello spazio già condiviso con Alessandro Algradi, mi invitò ad aprire uno studio in via Nota a Milano, dove sono rimasto per quattro anni, e da lì la svolta: il fotografo Fabrizio Ferri vide i miei lavori e li volle a Milano e a New York nei suoi spazi e, di sua iniziativa, pubblicò un libro con i miei quadri. Ho usato la parola sia nella canzone, in cui la parola cantata si ‘muove’, sia attraverso la pittura con il segno, con la parola scomposta. L’influenza dei miei nonni è stata molto importante nella mia vita.
Musica e pittura, a quale realtà senti di appartenere di più?
Non mi sento di appartenere più a una cosa che all’altra. La canzone diventa di tutti, ma anche l’opera, quando ha una forza, un’autonomia di linguaggio e comunicazione tale che non c’è bisogno di didascalie, diventa di tutti. Se guardi un’opera come un osservatore esterno, è chiaro che le sensazioni sono diverse: a una mostra incontri ad esempio cento persone, quindi è più intimo, invece se allo stadio 70-80mila persone cantano un tuo pezzo è chiaro che fa un altro effetto: diventa un rito collettivo!
MOGOL E LA MUSICA
Come nascono i nomi d’arte tuo e di tuo padre, Cheope e Mogol?
Nascono come esigenza per staccarsi e trovare una strada autonoma dalla famiglia. Il personaggio importante nella musica era mio nonno, così mio padre, quando cominciò a scrivere, per non usare di nuovo Rapetti scelse Mogol. Ti racconto un aneddoto: negli Anni Sessanta la SIAE richiedeva una lista di nomi per sceglierne uno che non fosse già presente o simile tra gli autori già esistenti, così mio padre inviò circa 50 proposte, ma erano tutte già occupate. In quel periodo lui lavorava come editore alla Ricordi, così mise un foglio in bacheca e disse ai suoi collaboratori di scrivere un nome e poi, inviata la lista alla SIAE, accettarono Mogol. La sua reazione fu: “Mah… penseranno che sia cinese, ma tanto questo nome non lo conoscerà nessuno!”. Invece quando inviai la mia lista avevo circa sedici anni ed ero molto interessato all’archeologia, quindi tra gli altri nomi la SIAE accettò Cheope. Da circa quindici anni il nome Mogol è diventato ufficialmente di famiglia, quindi non è più un nome d’arte. Per scelta, per una parte della mia vita da pittore non ho mai usato “Mogol” per separare le professioni di paroliere e pittore, fino a quando mio padre, vedendo una mia mostra, mi consigliò di usarlo.
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