Jannis Kounellis è il pittore che buttò il cavalletto. E’ l’artista che uscì dal quadro. Ed è l’uomo che camminava, dormiva, amava, mangiava, fumava mentre allo stesso modo pensava, parlava, faceva arte. Tutto ciò che Kounellis è stato in vita e in arte resterà per sempre come qualcosa che non si può separare, indiscernibile e indelebile.
Alla fine, indisponibile alla chiacchiera mondana. Per dire di lui e della sua opera che ha segnato mezzo secolo di storia molte immagini possono richiamarsi alla vista e mostre celebri torneranno alla memoria una per una, eppure non si coglierebbe l’essenza del grandissimo artista dimenticando le sue mani intrise di nero carbone, la sua lingua impastata di sapori e suoni lontani, imprecisa e sfuggente, traboccante di idee ogni volta nuove; e quel volto antico scritto dal tempo a illuminare una figura piccola e incappottata che ti girava intorno e girava il mondo con una forza mai vista, da non potersi pensare senza di lui una tale energia, un coraggio di uomo che crede eroicamente nella potenza espansiva delle mani, delle gambe, del pensiero.
Più d’ogni altra annotazione per capire Kounellis vale il primo ricordo di Michelle Coudray, compagna inseparabile, contrappunto dolce e bianco di un’esistenza amorosa, mai relegata ai margini privati di una vita vissuta con una grazia indolente, senza curarsi di niente che non fosse l’essenziale dell’arte, degli affetti, dell’amicizia.
“Quando cominciai a frequentare lui e i suoi amici artisti a Roma – ha spesso raccontato Michelle – fui affascinata dal fatto che parlavano al bar o in trattoria di Tiziano, di Caravaggio, di Van Gogh o di Picasso come fossero seduti a tavola con loro o come se stessero arrivando tutti insieme lì da un momento all’altro”. Jannis Kounellis è stato l’artista più importante della generazione più importante dell’arte italiana del dopoguerra. Si deve dire questa verità in modo perentorio. E’ così davvero e semplicemente perché la sua non è soltanto una storia dentro un contesto generazionale di assoluto valore, quale fu l’esperienza dell’arte povera alla fine degli anni sessanta.
E’ stato e sempre sarà così allorché comprendiamo che l’eccezionalità della sua figura si colloca in una sfasatura, in una piega del tempo storico dove presente e passato, tradizione e modernità sono diventate questioni molto concrete di cui si è ragionato facendo arte o semplicemente vivendo, pensando e agendo da artisti o anche no. In quello strano momento, mentre masaccio era normalmente contemporaneo di Pollock, davanti a un bicchiere di vino o forse mentre gli stava venendo in mente una parola o un’immagine, Kounellis è diventato Kounellis.
Sappiamo che la grandezza sua e dei suoi compagni di strada è stata sancita dalla decisione di sovvertire il concetto di rappresentazione, trasferendo nel campo dell’arte senza mediazione alcuna elementi della vita quotidiana, della natura, della realtà sociale. Ma in fondo tutte le avanguardie del secolo scorso, da Duchamp in poi, compirono lo stesso gesto di rottura, mettendo in crisi il confine tradizionale del concetto di arte: la separazione tra realtà e finzione. In America e nei paesi anglosassoni, gli artisti pop, i concettuali, i minimalisti su questo riuscirono a costruire codici visivi che divennero veri e propri marchi di fabbrica, dispositivi potenti per la promozione di un’estetica del contemporaneo performativa ed autoriproducentesi.
In Italia, l’esperienza poverista giocata con materiali e tecniche fragili segnò un momento di rifondazione della scena e di slancio per alcune figure di assoluto rilievo, ciascuna delle quali proiettata in seguito su traiettorie singolari. Kounellis, dal canto suo, spinse la propria personale riflessione in un verso ostinato e contrario alle tendenze che hanno poi trasformato il mondo dell’arte in un lunapark globale. Se dal dopoguerra in poi in molti si diressero e ancora incoscientemente precipitano verso l’inutile e l’insignificante rincorrendo il nuovo, l’insolito, lo sperimentale, il giovane pittore partito dalla Grecia e approdato a Roma negli anni cinquanta, non ha mai smesso di cercare forma e bellezza nella dimensione umanista dell’arte fatta con la terra, le piante, gli animali, la lana, il carbone, il ferro, il fuoco, il legno, il piombo.
E così, in un modo originale e poetico, con un linguaggio odoroso, sospeso tra sussurri ed echi di immagini lontane, Kounellis è riuscito a portare la vita nell’arte ma anche l’arte nella vita. Non più la realtà al posto della finzione, ma un solo grande teatro nel quale tutto succede in contemporanea, dove si recita se stessi e la propria cultura, dove le parole non sono mai astratte ma sempre incarnate nei corpi e nelle storie degli attori.
Oggi che la sua vicenda sembra essersi chiusa con un improvviso colpo di scena, non sarà inutile fermarsi a pensare che, prima di ogni altro messaggio, la figura e l’opera di Kounellis resteranno per sempre sul palcoscenico del mondo a testimoniare la consapevolezza di un’autentica identità culturale, l’etica di una lingua antica e la forza espressiva di un pensiero moderno interamente vissuto. Nonostante l’incidente biografico, un’artista così non è destinato a morire.
Ph. Eduardo Cicelyn – CasaMadre