Dotato di forte senso imprenditoriale, artista e comunicatore di se stesso, in questa lunga chiacchierata Jacopo Cardillo, meglio conosciuto con il nome Jago (Frosinone, 1987), si racconta tra progetti e riflessioni che gli hanno consentito di raggiungere da autodidatta importanti traguardi in Italia e all’estero, non ultima la collettiva Jago, Banksy, TvBoy e altre storie controcorrente, in corso al Palazzo Albergati di Bologna.
Dal suo recente incontro con Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ai follower che testimoniano il forte legame con il pubblico, Jago misura il suo tempo, la produzione e soprattutto le parole, che mantengono un equilibrio ben studiato, pensato e pesato.
Il Figlio Velato (2019) ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, Look Down (2020) installata in piena pandemia in piazza del Plebiscito a Napoli, città dove tra l’altro ha sede il suo studio, la Pietà (2021) in cui sostituisce la figura, il volto della Vergine per fare spazio al suo, sprigionando così tutto il dolore dell’uomo, e poi Habemus Hominem (2011), commissionata nel 2009 dal Vaticano, poi rifiutata perché “non rispecchiava i canoni prestabiliti”, sono solo alcune tra le sue opere più importanti. Reduce dalla prima grande personale, Jago. The Exhibition, a Palazzo Bonaparte a Roma, lo abbiamo intervistato.
INTERVISTA A JAGO
Con oltre 140mila visitatori, la mostra sembra essere stata un trionfo. Te lo aspettavi?
Ho imparato a non farmi mai aspettative. Nella mia testa è tutto bellissimo, ma poi vengo categoricamente disilluso, allora su cosa potevamo concentrarci? Sulla qualità, cercando di offrire un’opportunità sempre condivisa con tutti quelli che hanno partecipato al mio lavoro. Dopo sedici anni di comunicazione per una crescita collettiva, questo ha evidentemente prodotto un risultato che non voglio definire ovvio, ma giusto, in quanto chi è venuto a vedere la mostra è venuto a vedere cose che lo riguardavano da anni. Non sarei mai stato in grado di misurare questo risultato e in realtà non so quali siano i numeri buoni o meno buoni, ma ho imparato, in questa occasione, che si tratta di un grande risultato.
Quando hai realizzato che qualcosa stava davvero cambiando nella tua carriera?
In questo lungo lasso di tempo mi è capitato di incontrare persone che magari non frequentavo quotidianamente e mi facevano notare che effettivamente c’era stata una crescita. Per me quella crescita era la realizzazione di una prospettiva e gradualmente mi avvicinavo a quelli che erano i miei progetti. L’aspetto che mi interessa nella mia operazione artistica sta nella condivisione delle cose che faccio, perché la mia scultura è compiuta nella sua comunicazione: nel modo in cui è condivisa, in cui si relaziona agli altri, in cui gli altri hanno partecipato, hanno visto e seguito la sua realizzazione in ogni fase del dietro le quinte. I social mi hanno permesso di misurare un andamento che tecnicamente si misura in numeri, ma dietro quei numeri ci sono delle persone con cui cerco di stare in contatto umanamente il più possibile, perché quelle stesse persone sono in grado di dare tutto il valore all’opera.
A proposito di arte e social network, il successo di un artista oggi sembra necessariamente, o quasi, legato anche al numero di follower. Quanto è vero nel tuo caso?
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