Share the post "Ian Cheng e l’evoluzione dell’intelligenza emotiva alla Sandretto di Torino"
Può la tecnologia modificare il nostro corpo e le capacità percettive attraverso l’arte? Il giovane artista Ian Cheng prova a dimostrarlo con la retrospettiva Emissary in the Squat of Gods alla Fondazione Sandretto Re Rebuadengo di Torino, dal 23 aprile al 30 agosto 2015, a cura di Hans Ulrich Obrist, direttore della Serpentine Gallery di Londra.
Complice la sua formazione multidisciplinare umanistica e scientifica, l’arte di Cheng si basa sull’evoluzione dell’intelligenza emotiva, sulla complessità della mente umana, sulla percezione degli ambienti circostanti e sulla conseguente risposta agli stimoli esterni.
Con Oculus Rift, video installazioni e software dedicati, l’artista indaga le possibilità delle nostre capacità percettive tra la complessità della mente umana e la realtà esterna, sempre imprevedibile. Per le opere interattive fa riferimento a persone vere col fine di realizzare azioni performative i cui dati rilevati vengono raccolti in un computer che, a sua volta, li traduce in forme sintetiche.
I video come His Papaya Tastes Perfect (2011), rappresentano la realtà concreta per cui non prevedono un inizio e una fine, ma scorrono in tempo reale e i personaggi, perlopiù piante, oggetti e persone, si muovono in un ambiente neutro e in varie direzioni fino alla perdita di controllo, lasciando spazio alla casualità. Tutto ciò è possibile grazie agli algoritmi evolutivi, ossia quei software dalla risposta sempre differente che l’artista definisce “organismi” imprevedibili nella realtà parallela.
“Se riesci a immaginare una cosa a metà fra il genere del videogame e quello del film, ecco, è quello”. Ian Cheng durante l’intervista rilasciata ad Hans Ulrich Obris per il catalogo della mostra torinese. “È un po’ come una storia vivente – continua l’artista – io la chiamo ‘smart-story’, non perché sia intelligente, ma nel senso di uno smartphone o di una smart house, cioè un telefono o una casa, concepiti non come oggetti inerti ma come organismi. Immagina una storia che vive di vita propria, non una vita metaforica ma una vita vera, e che quindi può cambiare leggermente la propria sceneggiatura, può modificarsi e lasciare spazio alla casualità, proprio come un organismo nella vita reale può accogliere in sé la casualità. È una narrazione – aggiunge Cheng – che ha la capacità di automodificarsi”.
Un po’ come l’arte che genera arte, la Generative Art, una pratica artistica che nasce negli anni Ottanta e che utilizza software come medium per creare arte in maniera automatica grazie a un processo generativo di istruzioni prestabilito dal programmatore. La macchina, infatti, esegue le istruzioni sottoforma di algoritmo che andranno poi a svilupparsi in modo autonomo e automatico nel cui risultato è negata l’intenzionalità dell’artista.
Lo studio interattivo di Cheng, che mette in gioco la complessità della mente umana con la realtà esterna, fa riflettere sui limiti delle possibilità del genere umano e in occasione della personale, l’artista presenta il primo episodio della nuova serie di film, Once out of Nature. Una trilogia dedicata alla storia dell’evoluzione cognitiva, e quindi allo sviluppo della coscienza. Si tratta di un progetto ispirato alla ricerca dello psicologo americano Julian Jaynes il quale sostiene che gli esseri umani sono arrivati a sviluppare una coscienza riflessiva e introspettiva, non prima di tremila anni fa. Continua su Wired.