INTERVISTA A NICOLA SAMORÌ, AUTORE DEL NUOVO PROGETTO SITE SPECIFIC A NAPOLI, NEGLI SPAZI DI MADE IN CLOISTER E DEL MANN.
Nicola Samorì(Forlì, 1977) torna a Napoli. Dopo la prima mostra nel 2009, torna con un grande progetto site specific dal titolo Black Square, che incarna a pieno titolo tutta la potenza visionaria e vulcanica che caratterizza la sua produzione e la città. La personale è organizzata in due sedi: il Made in Cloister, ex chiostro cinquecentesco della chiesa di Santa Caterina a Formiello, e il MANN.
A cura di Demetrio Paparoni, il concept della mostra trova la sua origine nella storia, nella materia e nei simboli di una città che dello scorrere del tempo ha fatto un punto di forza, dove la morte e la retorica convivono in accezione positiva, dove il ‘sentire’ diventa opportunità. “L’esigenza di Nicola è quella di creare delle mostre che siano sempre ricche di motivazioni che nascono dall’oggetto di partenza”, dichiara Paparoni durante la conferenza stampa al Made in Cloister, e aggiunge: “Guardando un quadro del passato riesce a costruire una nuova narrazione e questo spazio è ricco di memoria come Napoli”.
Il percorso espositivo inizia nel chiostro di Santa Caterina nei pressi di Porta Capuana, quello che un tempo fu il varco, la porta principale per accedere alla città costruita nel 1484, accanto alla chiesa rinascimentale dove nel 1631 la lava si fermò davanti a San Gennaro, patrono della città, portato in processione. E così come un vulcano, posto nel centro del chiostro, si innalza Drummer, una imponente quanto terrificante scultura ricoperta di lapilli vulcanici alta cinque metri che si dimena nel vuoto; è appoggiata su un tappeto nero di 1300 minisculture che richiamano alcune teste esposte al MANN nella collezione Villa dei Papiri di Ercolano, anch’esse in dialogo con il passato, con le opere classiche.
L’INTERVISTA A NICOLA SAMORÌ
Com’è nata l’idea di confondere le ‘capuzzelle’ con i lapilli vulcanici?
Si è trattato di un percorso lento e non pianificato, ancora in divenire. Prima si è imposta la necessità di collocare un elemento catalizzatore al centro dello spazio (Drummer), poi quella di evitare l’effetto ‘soprammobile gigante’ che una scultura scura al centro di una pavimentazione chiara avrebbe suggerito. È allora che ho ricordato le passeggiate in Islanda sul suolo vulcanico e il peculiare suono emesso dal calpestio. Poiché la scultura ha cercato di farsi immagine del vulcano dal primo istante, appoggiarla su un lembo di spiaggia lavica mi è sembrato naturale. I confini di questo tappeto sono delimitati dalle colonne lignee dell’essiccatoio borbonico, un quadrato, ed ecco emergere il titolo e la presenza immediata di una icona radicale del XX secolo. Sulla spiaggia di lapilli vulcanici avevo pensato di spargere le teste che ora sono all’Archeologico come conchiglie, qualcosa di molto prezioso che si poteva leggere nei dettagli solo inginocchiandosi, ma sette grandi masse chiare avrebbero offeso il rigore di un campo nero che sembra eruttare la scultura intera. Non ho però voluto rinunciare alle teste, che sono decresciute nelle proporzioni di giorno in giorno, di prova in prova, finché non ho deciso di correre il rischio di una completa sparizione assimilandole nella grandezza al volume medio dei lapilli scelti.
Di quale materiale sono composte le teste?
Il materiale che ho utilizzato è il grès, che è il più simile che ho trovato in commercio al colore dei lapilli neri. A quel punto la pista camaleontica era tracciata e ho concluso il lavoro immergendo le piccole teste in ossido nero diluito. Quando ho gettato la prima manciata di capuzzelle in mezzo ai lapilli ho capito che, in quella parte del mio lavoro, il sapere era diventato ben più importante del vedere. È bastata una scintilla per generare curiosità e quanto è accaduto (la caccia alle teste) ha aumentato il senso del mio intervento.
La base della grande scultura richiama le fattezze di un candelabro barocco alla maniera degli obelischi/guglie di Cosimo Fanzago disseminati nel centro storico di Napoli e intorno, nelle finestre cieche del chiostro, prendono corpo due dipinti realizzati a olio e zolfo sul rame che lacrimano pigmento. Questi raffigurano S. Paolo Eremita di José de Ribera e S. Bartolomeo scorticato, del suo allievo Luca Giordano, e proprio dagli occhi delle figure partono filamenti di pittura staccati dal rame e poi lasciati scivolare a terra.
L’esposizione continua con sei affreschi dallo stesso soggetto. Ispirati alla scultura del Marsia solo e nudo appeso a un albero, l’opera è stata sottoposta a sei strappi consecutivi che svelano l’intonaco, come a levare la pelle fino a trovare l’immagine più ‘intima’ della figura. Invece, su un’altra parete del chiostro si susseguono una serie di piccoli dipinti su onice dove i geodi delle pietre, ossia le cavità spontanee, rimandano così alle ferite inferte sul costato di Cristo, sul corpo di S. Sebastiano e il collo tranciato di S. Gennaro. A proposito di quest’ultimo, tra un’opera e l’altra si fa spazio un’unica testa a grandezza naturale in onice traslucido messicano: ed è così che S. Gennaro si fa portavoce delle decapitazioni di Desiderio, Acuzio, Festo, Sossio, tra gli altri, che secondo il mito sono avvenute presso il Forum Vulcani. Sulla testa fa da contrasto del “sangue essiccato”: dallo stato liquido a quello solido, per restare impresso nella materia. Si tratta del processo inverso a dispetto di quanto accade durante il ‘miracolo’ del santo patrono che si verifica tre volte l’anno, in particolare il 19 settembre nel Duomo di Napoli.
Quali sono stati i tempi di produzione della mostra?
Ho visitato Made in Cloister per la prima volta più di un anno fa, ma la mostra ha preso forma solo l’estate scorsa e molti dei lavori sono stati realizzati nei mesi di novembre e di dicembre, sei settimane intensissime dove gli strappi degli affreschi sono stati condotti a ritmo serrato e la grande scultura ha trovato la pelle definitiva. Drummer è stato da me modellato nell’intera superficie dal 27 dicembre al 6 gennaio, in un capannone industriale privo di riscaldamento, con tecniche inventate di giorno in giorno per rendere vibrante ed eruttiva la pelle. Un vero tour de force fisico e mentale che ho trovato molto appagante.
Quella di Samorì è un’arte che dalla profondità del buio fa vibrare l’anima del fruitore perché ‘ti scava dentro’, alla ricerca di quell’emotività viscerale e singolare che soffoca il pianto. Un’arte che in diverse forme mette in dialogo passato e presente, antico e contemporaneo, materiali e linguaggi creando un mix di emozioni e sensazioni forti, dove la ‘decadenza’ è sinonimo di ‘rigenerazione’. Come precisa poi Samorì: “Lo scavo, il buco, l’attraversamento, la mutilazione sono degli spioncini che ci mettono in contatto con il dentro, proprio come accade nel corpo. Li avverto in realtà come dei pieni, come dei pieni immensi, perché risucchiano il nostro sguardo e in un istante diventano la sola cosa visibile. Il Barocco e Fontana insegnano, Wildt pure”.
Nel difetto l’artista trova spunto per individuare la bellezza, soprattutto in una città come Napoli continuamente in pericolo. La ricerca dei materiali impiegati nella produzione fanno riflettere, quindi, su quanto l’antico e il contemporaneo si possano incontrare per ritornare alle origini, ma soprattutto su quanto il passato possa ritornare con una fiamma nuova, rigenerata, dove anche il suono del calpestio dei lapilli vulcanici partorisce nel fruitore una memoria storica nel presente.
Raccontaci l’incontro con Demetrio Paparoni. Come è nata la collaborazione?
Ho iniziato a collaborare con Paparoni alla fine del 2014 e da allora il confronto con Demetrio è stato costante, quotidiano. Paparoni ha dimostrato di credere fermamente nel mio lavoro e non ha perso occasione per coinvolgermi e mettermi alla prova in duelli visivi esaltanti e affaticanti. A Made in Cloister mi ha condotto lui, lasciandomi carta bianca. Demetrio è uno dei pochissimi curatori italiani che si è esposto senza riserve nei miei confronti, facendo i conti con uno scetticismo ben radicato.
Quando sei arrivato la prima volta a Napoli, quali sono state le tue sensazioni?
Il mio primo contatto con Napoli è stato agghiacciante: cercavo di raggiungere Capodimonte ma sono stato ‘garbatamente’ alleggerito dei miei averi. Ho impiegato otto anni a raggiungere il Real Bosco, dal 2001 al 2009, ma da allora le mie puntate a Napoli si sono infittite e di volta in volta si è chiarita una consanguineità con alcuni aspetti peculiari che rendono inevitabile il mio ritorno.
Per Artribune